Chiello con “Scarabocchi”, un’anima a nudo tra caos e poesia

Chiello con “Scarabocchi”, un’anima a nudo tra caos e poesia

Ci sono artisti che si raccontano con voce alta, e altri che preferiscono urlare sottovoce. Chiello appartiene alla seconda categoria. Dopo l’esperienza con i SFK e il grande debutto solista con “Oceano Paradiso“, l’artista è diventato una delle voci più riconoscibili della nuova scena italiana: emotivo, vulnerabile, imperfetto, e proprio per questo profondamente umano.

Il suo stile è un mix di indie, punk, emo e pop: niente è mai lineare, tutto è una frattura, un salto, un respiro interrotto. Con il suo terzo album, Scarabocchi, decide di mettersi completamente a nudo. Un lavoro che lo fa spogliare da ogni filtro. Un album che racconta le sue paure, la sua ansia sociale, il suo caos interiore con un’intensità che lo conferma tra i cantautori più personali e originali della scena attuale.

Scarabocchi: il caos disegnato a mano libera

Un titolo che racconta tanto, forse tutto. Un album che non contiene una title track, ma che riesce ad abbracciare in pieno questo mood. Lo scarabocchio, quella firma al lato del foglio che si fa mentre si fa altro, quando la testa è troppo piena di pensieri e si cercano modi per esorcizzare quelle voci nella testa che ci fanno mancare il fiato. Ecco, quest’album per Chiello è proprio questo: un flusso di pensieri, lasciati al margine di fogli di carta, macchiati magari da qualche tazzina di caffè. E’ forse proprio questo che vuole raccontarci l’artista, il suo flusso di pensieri, sconnessi, spaventati, liberi.

Insetti

L’intro dell’album. Un pezzo che ha l’obiettivo di inquietare, aprire un varco e scavarci dentro. “Insetti” è angosciante, quasi disturbante. Il focus è chiaro fin da subito, Chiello ci parla delle su paure, della morte e della voglia di farsi trovare nudo – sul parquet – come un verme. Gli insetti diventano quindi il simbolo indiscusso di ansie, pensieri invadenti, ossessioni, perversioni. Un brano coraggioso, che ti fa venire voglia di scendere giù, negli inferi e cominciare un viaggio nella sua mente.

Se ti ronza nella testa un pensiero che non scacci
Prova a dirmelo all’orecchio, solo io posso capirti

Scintille

Il viaggio continua con “Scintille”, un pezzo più pop che ricorda – nel sound – l’iconica “Quanto ti vorrei”, ma non per questo più serena. Le scintille sono passioni che bruciano, lasciano segni. Creano tornadi e tempeste, divampano fuochi. Il ritornello si stampa in testa, la malinconia resta sotto la pelle. Un equilibrio perfetto tra orecchiabilità e tormento. Un loop che ci costringe a continuare nonostante i pensieri – proprio come desiderava Chiello – cominciano ad aprire il cassetto dei ricordi.

Tu pensi che sia stupido picchiare il sommelier
Mentre ti porge il calice, vuole assaggiare te

Stupida anima

La mia traccia preferita dell’album. “Stupida anima”, il pezzo scritto insieme a Blanco, è una vera e propria dichiarazione. Chiello ci confessa la sua debolezza, la sua paura della morte, del tempo che passa, quella di restare da solo in questo mondo che va sempre veloce al ritmo di un orologio che, purtroppo, non si ferma mai.

Il titolo è già un pugno allo stomaco: Chiello si rivolge a sé stesso, si rimprovera, si accarezza, si distrugge e si perdona. Il testo è costruito come un dialogo interiore, dove la “stupida anima” non è altro che la parte più fragile e vera di lui. La melodia è struggente, la sua voce è potente, si incrina nel punto giusto e regala una verità che colpisce proprio alla bocca dello stomaco e lascia senza fiato.

Anima, sei distante
Anima, mi sfuggi sempre
E scappi, ma non serve a niente

La collaborazione con Blanco, pur non sentendosi direttamente come featuring vocale, si riflette nella sensibilità condivisa del testo e nell’intenzione emotiva. Entrambi, infatti, hanno quella capacità rara di parlare d’amore e sofferenza senza essere stucchevoli. Piccolo consiglio? Ascoltatela in cuffia e lasciatevi coccolare da questa carezza piena di spine.

Limone

Il primo pezzo rilasciato di questo nuovo progetto. Un brano che racconta un rapporto perduto. Un testo apparentemente semplice, ma che racchiude al suo interno una potente metafora in cui il “limone” diventa protagonista. Il limone, infatti, è il simbolo perfetto per raccontare qualcosa che ha un sapore ambiguo, aspro ma necessario, vivo ma spigoloso. Come certi ricordi, certe persone, certi giorni che ti restano in bocca anche dopo che sono passati.

Ti ho portato un limone
Era giallo canarino
Aspro come il tuo sorriso
Da buttare via nel mare

I miei occhi erano i tuoi (ft. Rose Villain)

Una dedica d’amore. Ecco “I miei occhi erano i tuoi” è forse la prima vera canzone d’amore di Chiello, mantenendo sempre lo stile che conosciamo composto da malinconia, ma anche un romanticismo nuovo. L’artista, infatti, ricostruisce un brano denso, intimo, quasi cinematografico, dove il romanticismo non è zuccherato, ma intenso e sofferto.

Quando ti dicevo che
Eri la più bella per me
Tu non mi credevi mai
Ma i miei occhi erano i tuoi

La presenza di Rose Villain arricchisce il pezzo con un contrasto perfetto: la sua voce elegante e tagliente si fonde con quella più ruvida e affaticata di Chiello, creando un duetto che è più di un semplice featuring — è un dialogo, uno specchio rotto in cui entrambi si riflettono a pezzi.

Maledirò

Eccola qui la rabbia. Quella rabbia che muove i geni e sovverte le regole del gioco. Chiello in “Maledirò” la butta fuori, non la trattiene più, è una vera e propria necessità. Una bomba che arriva, rade tutto al suolo e lascia in giro la cenere. Il testo è duro, diretto, spesso quasi infantile nella sua schiettezza – ma proprio per questo potente. Un pezzo scritto di getto, come se fossero arrivate tutte insieme, in un momento di rottura in primis con sè stesso. E in mezzo a tutto questo caos emotivo, si sente una verità cruda: quella di chi ha sofferto, ha provato a capire, e ora non ce la fa più.

Maledirò
Il giorno in cui
Ho scelto te
Perché ho toccato il fondo

Amici stretti

Pensarti è una cosa che dovrei evitare
Perché non sai quanto faccia male
È rimasto quasi niente di noi, di noi
Ho pianto tutte le mie lacrime al buio

Succo d’ananas (ft. Achille Lauro)

Il secondo feat dell’album è “Succo d’ananas” con Achille Lauro, un connubio incredibile e inteso tra due artisti poliedrici. Chiello e Achille Lauro si incontrano su un terreno comune, quello dell’eccesso emotivo sublimato in estetica, ma in questa occasione entrambi si mostrano più essenziali, più trattenuti. Non c’è ostentazione, non c’è provocazione: solo malinconia liquida e una ricerca di leggerezza che suona quasi impossibile da raggiungere.

Una ballad particolare che racconta di un amore sfuggente, che ferisce e si allontana. È un sogno che si muove a rallentatore, una ballata eterea dove tutto è velato, sfuocato, immerso in una dolce confusione.

Per oggi basta
Ti ho detto: “Non lo faccio più”
Stanotte non mi va
Stavolta solo succo d’ananas

Amore mio

“Amore mio” è una lettera a cuore aperto, ma non necessariamente spedita. Chiello parla apertamente del suo cuore ferito come scrivesse a qualcuno che forse non ascolta più. Il tono è tenero, ma stanco. Non c’è più lo slancio delle prime volte, né la rabbia della rottura: solo un affetto consumato, sedimentato, che si è trasformato in malinconia.

Non c’è dramma, non c’è pianto. Solo una constatazione piena di nostalgia: non siamo più noi, ma una parte di me ti vuole ancora bene. Un brano che riapre le ferite del tempo passato, una carezza su un corpo martoriato dai lividi di una relazione finita.

Amore mio, amore mio
So che non vuoi più far l’amore insieme a me
Chiamami quando il tuo cuore si ricorda
Che ci siamo amati tanto

Stanza 107

Una delle tracce più intime e cinematografiche dell’album. “Stanza 107” è ambientata in un luogo che diventa simbolo: una camera d’albergo, una stanza mentale, un limbo emotivo. Qui il tempo si ferma e Chiello si chiude dentro se stesso, con i pensieri che girano in tondo e il mondo fuori che non fa più rumore.

C’è un senso di isolamento scelto, di ritiro dal caos del fuori per provare a ricomporsi. Eppure la stanza non cura, non protegge: amplifica. Ogni suono è eco, ogni parola pesa il doppio. Un piccolo capolavoro di silenzio e sospensione in cui disinfettarsi le ferite, ritrovarsi, ricomporsi mentre le parole ci piovono addosso come coltelli.

Crederti è stato un errore
Lo sbaglio che fa più male
Se venissi lì da te con questa rabbia
Non so che farei

Malibù

Non fatevi ingannare dal titolo. “Malibù” non è una canzone estiva, una produzione vagamente californiano, ma con una malinconia profonda che pulsa forte. È la storia di un ricordo bello che fa male. Di un’estate vissuta troppo in fretta, o di un amore che sembrava infinito solo per qualche ora.

Il contrasto tra la musica leggera e il testo agrodolce è tutto il senso della traccia: quella sensazione in cui sei sorridente fuori, ma col nodo in gola dentro. La voce di Chiello è stanca ma affezionata, come se stesse guardando una vecchia foto con tenerezza e un po’ di rabbia per com’è finita.

“Malibù” è il sole che brucia invece di scaldare. Una hit malinconica, perfetta per ballare da soli in salotto con gli occhi lucidi.

Devo soffrire per sentirmi vivo
Voglion che scriva canzoni leggere, ma non mi ricordo
Più come si fa, la-la-la-la-la
Mi sento un sasso che rotola giù
Dall’alto del bosco, finisce in un fosso, poi arriva in città
Il dolore brucia nei miei occhi come il sale

Pirati

Il brano forse più leggero dell’intero album. Chiello ci porta nei suoi giochi infantili, tra le serate a giocare a nascondino e quella necessità di sentirsi “bambino ancora per un pò”. I pirati qui non sono i soliti avventurieri romantici, ma anime perse che si tengono a galla tra onde troppo alte, un’evoluzione dei “bambini sperduti” di Peter Pan, ma con la vena punk emo che contraddistingue l’artista.

Il tono è leggermente più vivace, ma sempre sospeso. Il ritornello è struggente, infantile, nostalgico insieme, come un canto che si potrebbe ascoltare su una barchetta abbandonata nel mare della mente.

C’è una dolcezza sghemba in questo brano, una voglia di evasione tenera e disperata, come se scappare fosse l’unico modo per sentirsi vivi. È uno dei momenti più immaginifici e narrativi del disco, e Chiello qui dimostra che sa creare mondi anche con poche parole.

Mi urlo: “Fai schifo, non ti riconosco più”
Quel sorriso da bambino è svanito coi Looney Tunes
Guardo quel vestito che oramai non indosso più
Arlecchino, ora affoghi nel vino e rimani tu

Nessuno ti crede

Nessuno ti crede” è una ferita aperta. È il momento in cui Chiello si mette completamente a nudo, senza costruzioni né difese. Il titolo è già una dichiarazione pesante, carica di disillusione: non è solo un’accusa verso qualcun altro, è anche uno specchio su di sé. Come se stesse dicendo: “nemmeno io riesco più a crederci”.

Il brano ruota attorno alla sensazione di essere fraintesi, invisibili, svalutati. Chiello canta di parole che non bastano, di promesse vuote, di persone che fingono di ascoltare ma in realtà hanno già voltato lo sguardo altrove. È la fotografia esatta di cosa si prova quando ci si sente piccoli, anche in mezzo alla gente.

Questa traccia è uno degli episodi più emotivamente crudi dell’album, e forse anche uno dei più sottovalutati. Non cerca approvazione, non cerca perdono. È solo un ragazzo che dice quello che prova, anche se sa che potrebbe non essere ascoltato.

Il giorno in cui sono nato è un ricordo che non ho
Anche il volto di chi ho amato forse un giorno svanirà
Allo scoccare della mezzanotte mi recavo da te
Sopra un angelo che solo tu sai vedere
Ma non te lo riesci a spiegare, nessuno ti crede

Con “Scarabocchi” Chiello ci apre il suo mondo, regalandoci il suo dolore trasformato in arte. Non è un album creato per piacere, ma per essere vero. Non è fatto per essere pulito, ordinato, o radiofonico. È ruvido, scomposto, pieno di sbalzi e di vuoti. Ma è vero. È uno di quei dischi che sembrano scritti con la pancia e registrati col cuore in gola. Non è perfetto. Ma è profondamente umano.

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